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Un’occhiata alle cose del mondo…

L'arte contemporanea naufraga con i naufraghi - La Stampa

 

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Potrebbe mancare poco all’avvento delle consapevolezze necessarie per svincolarsi dal gorgo di sangue, pazzia e sofferenza in cui versiamo.

Galleggiamo come naufraghi ottimisti nel mare caldo della cultura di dati, di logica, di causa-effetto, di narrazioni, di scienza, di avanzamento tecnologico, di razionalismo, di buon senso (sempre risolutore), di morali e verità mondane, aggrappati ai relitti cognitivi delle convinzioni. Dell’oggettività. Certi che la corrente ci spinga agli arenili della conoscenza, nuoticchiamo supponenti e sereni fra affioramenti rocciosi, bianchi di schiuma, che la boria di noi stessi ci impedisce di considerare, di temere. Senza paura ci lasciamo sospingere avanti, sempre avanti.

Finché, ignari del pericolo, inetti all’autocritica, inadeguati al discernimento profondo, andremo a infrangerci sulle ispide e taglienti lame della verità che le sirene delle tv volevano nascondere, che la messe franosa di dati dell’attualità e dello spettacolo volevano coprire.

E a quel punto, ancora, invece di ammettere l’albagia e la superficialità che ci ha portati al disastroso vuoto interiore, una volta di più sostenuti dalle consuetudini negheremo l’evidenza di una vita ferita e sanguinante delle illusioni mondane con le quali l’avevamo riempita.

Se poi scoppia la violenza su sé e sul prossimo, tra noi e contro gli altri, “Cosa vuoi farci? È la storia!”

Ancora buona visione.

Secondo Niels Bohr (1885-1962), diversamente dallo tsunamico pensiero scientista meccanicista, che, da Cartesio in poi aveva arenato tutti sulle spiagge delle verità misurabili (con unità di misura, a loro volta, autoreferenziali) non c’è contraddizione tra particella e onda.

“A livello logico Niels Bohr, con il suo “principio di complementarietà”, sancisce che la contraddizione riscontrata dall’indagine dell’infinitamente piccolo non deve essere considerata sintomo di errore e pertanto non deve essere vista come qualcosa da risolvere o eliminare. Le due descrizioni della natura anche se opposte infatti sono da considerarsi entrambe vere. La luce, anzi la materia tutta, risponde ora sotto forma di onda, quindi in modo continuo, ora sotto forma di corpuscolo, quindi in maniera discontinua, a seconda della domanda che le si rivolge, ovvero a seconda dello strumento usato e del tipo di esperimento fatto. Con le sue due descrizioni, Bohr afferma che «il soggetto da semplice spettatore diventa attore nello spettacolo della vita.

Alla luce di tutto questo, non solo vengono a saltare i pilastri di riduzione e semplificazione, ma anche quello costituito dalla logica della non contraddizione»”. (1)

“Quando Niels Bohr accettò l’accoppiamento delle nozioni contrarie di onda e di corpuscolo dichiarandole complementari (1927), compì il primo passo di una formidabile rivoluzione epistemica: l’accettazione di una contraddizione da parte della razionalità scientifica.

L’associazione complementare onda/corpuscolo non è nata da un’illogicità del pensiero. Essa è nata da una illogicità della realtà”. (2)

Avviare il discorso di questo articolo, dedicato all’incantesimo della conoscenza scientista, al suo distruttivo potenziale (in atto da tempo) nichilista, richiamando alcuni aspetti scaturiti dalla ricerca scientifica, culminati con la fisica dei quanti, è solo un espediente destinato a un pubblico dal cuore materiale, ignaro, o peggio, deridente gli echi delle conoscenze sapienziali tradizionali di tutto il mondo che, da millenni prima della fisica quantistica, affermano il necessario per fermarsi a riflettere sull’illusorietà della conoscenza così come la intendiamo e nella quale ci identifichiamo e, di conseguenza, accedere ad una prospettiva che, invece di mortificarci e dividerci, ci permetta una vita creativa, soddisfacente e ricca di relazioni armoniose, per una visione del mondo, di noi e della realtà, quindi anche della storia come ineludibili emanazioni di noi stessi, ma dalle quali emanciparsi e prenderne le distanze a mezzo del nostro coltivabile gradiente di consapevolezze.

Prendiamo in esame il Mistero. Esso, seppure accanitamente indagato, resta sconsolatamente inaccessibile. La questione irrita gli scientisti. Alcuni si rifugiano nel camerino del misurabile. Altri in quello dell’inesistente. Altri ancora, in quello della dimostrazione e ripetibilità. Per tutti vale che, non solo il mistero resterà tale, ma – e questo è il punto – che l’humus dal quale si erge, più forte di un’erba infestante, è concimato proprio dalla loro superbia, alimentato dalla loro protervia, cresciuto dalla loro ignoranza.

Il mistero, infatti, è un loro figlio misconosciuto della madre logica, che loro amano tanto, così tanto, fino al punto da non vederne i difetti.

Basterebbero le contraddizioni che emergono dal suo terreno, quelle che gli incaponiti risolvono chiamandole eccezioni che confermano la regola, paradossi, antinomie, aporie. La catalogazione è un suo pregio ma anche un suo tappeto sotto il quale nascondere le fioriture indesiderate.

Forse, oltre a quelle sconosciute, vanno annotate quelle che restano senza un significato a mezzo del quale riconoscersi. In ogni caso, tanto quelle rimaste ignote, tanto quelle gettate via, incomprensibili, hanno il precipuo carattere di essere entità che il soggetto egocentrico non ha modo di comprimere nella scatola della logica o peggio, in quella del buon senso, un ectoplasma che esce dal suo cilindro chiamato senno di poi, che vede solo lui e che gli piace così tanto evocare. Del resto, il campo della logica è il solo ambiente in cui possiamo muoverci quando il mondo è ridotto dalla nostra concezione di esso a qualcosa di esterno a noi. Un sistema senza possibilità di tangenti destinate alla scoperta di nuovi mondi, governato da un’etica manichea. È allora che diventa legittimamente ovvio condividere che la materia sia tutto, che la realtà sia una per tutti, che il diritto all’arroganza si fa tanto vasto da considerare un dovere rispettare i suoi comandi.

“Jancsi [von Neumann (1903-1957), matematico e fisico ungherese, naturalizzato statunitense, NdA] se ne rese conto immediatamente, ma all’inizio faticò ad accettarlo. Se quel che diceva Gödel era corretto, per quanto lui facesse – per quanto chiunque facesse – non ci sarebbe stato modo di assiomatizzare la matematica, di svelarne i fondamenti logici che voleva così disperatamente trovare. Stando a ciò che gli aveva mostrato Gödel, se anche qualcuno fosse riuscito a creare un sistema formale di assiomi del tutto scevro di paradossi e contraddizioni interne, tale sistema sarebbe comunque stato incompleto, perché avrebbe contenuto enunciati che, pur essendo innegabilmente veri, non avrebbero potuto essere dimostrati entro le leggi di quel sistema”. (3)

Se il piano logico o bidimensionale o meccanico si presta a descrivere al meglio una realtà replica di se stessa, ovvero con tutte le parti e i ruoli condivisi da tutti e, perciò, a servire al meglio la dimensione amministrativa della vita, in contesto libero relazionale essa seguita a deragliare, lasciando sul campo morti e feriti di un genocidio superiore a qualsiasi altro, non solo di spoglie ma anche di spiriti.

“Le scienze umane hanno subito l’invasione del modello emerso dalla fisica classica, e tutto ciò che resisteva a questo modello sembrava retrogrado”. (4)

“Come dice Suzuki, «la logica è lo strumento più utile alla vita pratica… il supremo strumento utilitaristico per mezzo del quale noi maneggiamo le cose che appartengono alla superficialità della vita». Così, la sua lunga osmosi con la scienza classica ha permesso lo sviluppo di molteplici e formidabili poteri di manipolazione”. (5)

Il campo di gioco della logica è considerato dalla cultura scientista, il solo mare esistente. Ma esso è limitato e perciò, necessariamente, consanguineo nelle sue cretine conseguenze. In esso non si pescano le energie sottili dei miti, degli archetipi e dei simboli, le reti utilizzate sono troppo grossolane. Utilizzando rapala, esche finte, mai abboccano le analogie e le metafore, prede dal potere magico, che la logica non sa riconoscere, riducendole, come fa con tutto ciò che maneggia, a corpo morto, come un posacenere che sposti e sta dove lo metti.

Il suo bottino, come la sua conoscenza, vale per quanto conta. Così riempie l’essere di avere e avanza nel suo mare verso le invisibili rocce a pelo d’acqua delle altre forme di conoscenza che della logica non sanno che farsene. Quella emozionale, quella estetica, contemplativa, meditativa, estatica, quella fenomenologica o dell’accettazione, quella, in sostanza, avvicinabile solo prendendo le distanze dal pensiero unico assoluto imparato a scuola, in chiesa, a casa. Quello che ha istruito l’edificazione del nostro io e indotto l’identificazione con esso. La cascata di conseguenze non risparmia niente e nessuno. Arthur Schopenhauer (1788-1860) fu marginalizzato dall’assolutismo logico-razionalistico della tradizione occidentale, esaurito nella rappresentazione del reale che, come dice il filosofo tedesco, è necessariamente costretta entro quel campo, in cui nasciamo e che, infatti ci appare il solo possibile, come la madre.

“Come avevamo scritto, «questa logica ha armato la concezione di un mondo coerente, interamente accessibile al pensiero, e tutto ciò che oltrepassava questa coerenza diveniva qualcosa che stava non solo fuori dalla logica, ma anche fuori dal mondo e dalla realtà».” (6)

Se nel campo della logica formale tutti i giochi regolamentati si svolgono al meglio, bisogna notare che con il crescere delle parti in causa, l’eventualità del blocco sistemico è direttamente proporzionale, e il suo avvento solo questione di tempo. Dunque, nei grandi numeri, ancora una volta la logica, non solo perde colpi, ma rivela la sua inadeguatezza. Ma, ancora, nonostante queste evidenze autopoietiche che non corrispondono più alla somma delle parti, pare nessuna istituzione voglia prenderne atto, al fine di avviare un’educazione che sia meno improba quando non si tratta di spiegare, descrivere, narrare la verità di un motore a scoppio, ma si ha a che fare con l’esistenza e la sua natura magica e misterica.

Allora il mondo scaturito dalla logica cessa di essere il mondo per divenire solo una parte di esso. Più precisamente quella in cui essa non che uno strumento valido per la dimensione amministrativa, come è quella della progettazione e realizzazione di un impianto elettrico, di una bomba all’idrogeno, di una corsa campestre. Una parte che, però, non è isolata e non è impermeabile all’infinito incomprimibile dentro un regolamento.

Solo un approccio olistico ha in sé le doti per riconoscere la verità di tutte le cose e la consapevolezza della realtà quale riflesso concreto del nostro pensiero. Un criterio non-analitico, non-scompositivo quale quello delle tradizioni magico-esoteriche, incomprimibili, se non storpiandole nella scatoletta della logica.

La natura autopoietica dei grandi numeri non è comprimibile nelle dinamiche predittibili disponibili nelle entità corrispondenti a piccoli numeri. Un oracolo e un miracolo tendono a realizzarsi quando, in stato di purezza, lo sciamano o il cristo vedono, tra le molte, le forze più forti che contengono e costringono l’interlocutore.

I Grandi numeri, in quanto tali, hanno il potere di generare. È la mente di Bateson, terza cosa rispetto agli enti a confronto.

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Recensione di Lorenzo Merlo di "Chi sei tu" di Paolo D'Arpini

In essi, la fertilità della creatività tende a salire con l’emancipazione dalla visione egocentrica. Liberati da se stessi, sfrondati dalle maschere dei ruoli, la soglia dell’energia diviene varcabile. I colori e le forme del mondo bidimensionale, risultante delle nostre descrizioni di esso, muta in flussi di energia che ci legano a tutte le cose con le quali entriamo in relazione. E rivelano come essi scorrano o s’inceppino e s’annodino, in modo corrispondente alla nostra narrazione, involucro esterno delle emozioni.

La dimensione egocentrica e quindi i pensieri che essa emana sono per lo più di corto raggio. È una specie di antidoto all’avvento del potere magico. Essa supera con salti logici le dinamiche che non sa gestire, credendo così di vivere in un mondo ordinato, nel quale riconosce il proprio posto e sente l’autostima per esserselo guadagnato.

La fisica quantistica e la filosofia da essa scaturita, ben raccontata in Fisica e filosofia, da Werner Heisenberg, oltre a incrinare l’assolutismo logico-razionalista della fisica classica e della relativa cultura meccanicista che ne è sorta, e a rivitalizzare la dimensione magica della realtà, non ha però fatto breccia se non in termini specialistici. Terapeuti, didatti, psicomotricisti, pedagogisti, sociologi e la PNEI (psico-neuro-endocrino- immunologia, gli operatori della quale, salvo eccezioni, si ritengono i detentori della nuova concezione olistica, senza riconoscere niente, ma niente, alle tradizioni sapienziali), guarda caso tutti settori che sviluppano il loro gioco nel campo aperto delle libere relazioni hanno provveduto ad aggiornare la propria concezione della realtà, di noi, dell’altro e delle relazioni. Ma dopo questo riconoscimento penso sia opportuno dare seguito con una critica. Il loro impegno, che se c’è non conosco, nei confronti della cultura intera, affinché ciò che essi hanno realizzato, esca dalla specializzazione e divenga bene comune, ordinaria presenza nell’educazione e nel pensiero di tutti.

“Un tale atteggiamento inoltre non può essere proprio soltanto di alcuni prescelti, che fanno parte di un campo privilegiato, esoterico; non può essere un lusso speculativo per filosofi, ma è da considerarsi un compito, un dovere storico per ciascuno di noi”. (7)

Quando nel nostro cuore saranno presenti anche i battiti della realtà nella relazione, avremo di che alzare la tolleranza, il bene diffuso, una politica da statisti e una filosofia non più speculativo-analitica, ma umanistico-relazionale.

Accettando come Bohr e non solo, la non contraddizione della coesistenza dell’onda-particella si può arrivare a prendere le distanze dal gergo dualistico che, invece di vederle come facce di una sola esistenza, le concepisce come generate dalla nostra presenza, dal nostro sentimento, dal nostro pensiero. È così che si può riconoscere che la domanda fondamentale non è più se una entità è vera o meno, in quanto questa, viene sostituita da: in che termini è vera e in quali altri è falsa. Quale religione è vera e quale falsa, e di quale si può escludere che corrisponda ad una interpretazione della realtà, a un’emozione dominante?

Allo stesso modo, cioè seguendo le opportune catene di consapevolezze, si comprende quanto sia vero che l’universo è più simile a un pensiero che a qualunque altra sua descrizione o consistenza. E anche quanto affermato da Giordano Bruno, il quale aveva visto che è il pensiero che genera la materia e non viceversa.

L’intero in sede delle parti, degli opposti. Esso non corrisponde alla cognizione che ogni lato ha il suo opposto, ma alla consapevolezza che quanto vediamo è tale a causa anche di quanto non vediamo. Un intero è una diade, che si traduce con Tutto. Esso prende forme parziali, distinte e oggettive solo e soltanto al nostro cospetto; diviene una o altra cosa in funzione del nostro punto di attenzione. Punto che ha nella sua materialità il meno compromettente degli elementi della ricetta dalla quale l’alambicco farà gocciolare la realtà. Il nostro stato metafisico, intimo, le nostre idee è ben più significativo, e magico, per dare forma al mondo materiale. Una magia che però non gestiamo, ma che subiamo in misura direttamente proporzionale a quanto ci riteniamo indipendenti dal cosmo e da quanto crediamo di osservare dall’esterno. Una posizione che non sappiamo di occupare, ma che è necessaria per farci sentire in diritto di credere, fino alla spada se necessario, che la nostra descrizione, o quella dell’esperto, sia da difendere.

È la sostanza della magia, del miracolo, dell’oracolo, della chiaroveggenza. È la visione del terzo occhio, il solo in grado di vedere sotto e dentro le forme, di unire ciò che appare separato, di coniugare quanto sembra estraneo, di sentire le forze in campo e vedere la loro azione.

“[…] la capacità che hanno i grandi giocatori di vedere l’intera tavola e intuire come la partita evolverà da una determinata posizione, il talento tipicamente umano di «leggere la tavola»”. (8)

Fu il fisico Luis De Broglie (1892-1987) a dire che ciò che ronzava dentro il nucleo atomico poteva essere due cose differenti contemporaneamente cioè, il primo a emanciparsi dall’incantesimo della logica, dai relativi principi di non contraddizione, d’identità e del terzo escluso come solo campo dell’esistente.

Così, il cosiddetto collasso di una funzione d’onda, non è che la formalizzazione personalizzata di una certa realtà che si compie nel momento della nostra presa in esame in quanto, questa, non è mai neutra ma sempre inquinata da sentimenti, bisogni, pensieri e strumenti. In altre parole, è la riduzione dell’infinito in un solo campo finito di realtà percepita come vera e oggettiva. Campi che, in quanto configurati ad immagine e somiglianza del creatore/interlocutore di realtà informano il mondo con i loro qubit, l’unità minima dell’informazione quantistica che ha, quale carattere, la disponibilità a divenire realtà di infiniti stati onda/particella, e che è l’elusione del dualismo. Quando questi processi accadono nell’inconsapevolezza di chi ne è coinvolto, essi divengono un’autocensura creativa alla conoscenza, la cui natura sta nella consapevolezza che scambiare la cangiante condizione della superficie del mare per realtà duratura e solo un abbaglio egoico. I movimenti della superficie del mare riflettono luce e sentimenti, come la coscienza fa con i pensieri.

Ugualmente avviene per il cosiddetto salto quantico. Nient’altro che l’avvento di una realtà per noi nuova, scaturita da una copia identica ma senza più il significato che le davamo prima. Originata da un’emozione, a volte detta metafora, altre analogia, comunque da un’interruzione della nostra intima continuità.

Salto quantico è sinonimo di consapevolezza e di emozione. È la catalizzazione di una verità e visione piuttosto che il suo opposto e la sua alternativa. Uno stato che ci differenzia e differenzia il mondo dalla condizione precedente pur lasciandola formalmente illibata. Si veda The Place, un film del 2017 che, anche se fa pensare alla morale e all’etica, ben rappresenta le realtà che informiamo di noi stessi o il loro carattere quantistico ovvero, totalmente a carico delle nostre esigenze e dei inostri valori.

Tanto la forma della catalizzazione della funzione d’onda, quanto il salto quantico, non sono predittibili. E sebbene i fisici gli offrano il carattere probabilistico, non penso che ad esso ci si possa riferire definitivamente. Tali probabilità di accadimento della conoscenza e dell’avvento di una certa realtà, come già asserito dalle tradizioni sapienziali, sarebbe opportuno considerarle una tendenza latente, di inutile dimensionamento percentualistico, per la quale basta una perdita di concentrazione, una variazione energetica, per farla precipitare dal lato sbagliato, per farla avvenire in un modo o in un altro. O anche una potenzialità, non una probabilità misurabile e quantificata, del tutto estranea alla visione olistico-energetica della realtà che, semplicemente, vede le forze in campo nel momento e le reazioni ad esse di chi ne è coinvolto. Tanto più queste sono soverchianti il soggetto che le subisce, tanto più questi, tenderà ad un certo predittibile comportamento. Tanto più la condizione energetica del soggetto è vista, tanto più si potrà osservare il potere delle forze che agiscono su di lui. La quantificazione probabilistica fa parte della modalità scientifica, ne rispetta la tradizione e il linguaggio, ma non mette luce dove serve, non si apre alla magia anzi, è un ultimo baluardo, di sopravvivenza dello spirito cartesiano.

“È sbagliato pensare che compito della fisica sia scoprire come la natura è. La fisica verte su ciò che della natura possiamo dire”. (9)

Se Niels Bohr si è sentito costretto a pronunciare queste parole così banali, qualche movente l’avrà avuto. Uno di questi, sta nell’idea che le ritenesse banali sì, ma per troppo pochi. Un altro che le considerasse un’espressione di spinta verso l’emancipazione dalle affermazioni degli scienziati che, fin da bambini impariamo a concepire come la Verità.

Alla pari con quanto già fanno al cospetto di coloro che chiamano ciarlatani, dopo quanto detto dal fisico danese, la moltitudine di scientisti dovrebbe ora deriderlo. E dovrebbero farlo, come hanno sempre fatto nei confronti di chi, senza essere un ricercatore, era giunto alla medesima osservazione. Tuttavia, ancora una volta, a quel popolo seduto comodo sul treno del dogma, Bohr, con quella considerazione, offre un punto d’appoggio per muovere la leva che scalzi il macigno, che nasconde loro di vedere oltre il determinismo meccanicista, che gli permetta così, di aggiornare il brutalistico sistema di pensiero bidimensionale.

Se così dovesse andare, buona visione!

“Così la nostra educazione ci insegna solo molto parzialmente e insufficientemente a vivere, e si allontana dalla vita poiché ignora i problemi permanenti del vivere […] e taglia le conoscenze in pezzi separati. La tendenza tecno-economica sempre più potente e pesante tende a ridurre l’educazione all’acquisizione di competenze socio-professionali a scapito delle competenze esistenziali in grado di produrre una rigenerazione della cultura e a scapito dell’introduzione di temi vitali nell’insegnamento”. (10)

Lorenzo Merlo – Movimento per l’Ecologia Profonda

 

Lorenzo Merlo, milanese giramondo: “Qui mi sento a casa, ma da lontano la  mia città sembra molto provinciale” – Milano Meravigliosa

Note

  1. Edgar Morin, La sfida della complessità, Firenze, Le Lettere, 2017, pp,15-16. Da La sfida di Edgar Morin, saggio introduttivo di Annamaria Anselmo.

  2. Edgar Morin, La sfida della complessità, Firenze, Le Lettere, 2017, p, 23. pp. 52-53.

  3. Benjamin Labatut, Maniac, Milano, Adelphi, 2023, pp, 107-108.

  4. Edgar Morin, La sfida della complessità, Firenze, Le Lettere, 2017, p, 23. p. 66.

  5. Edgar Morin, La sfida della complessità, Firenze, Le Lettere, 2017, p, 60.

  6. Edgar Morin, La sfida della complessità, Firenze, Le Lettere, 2017, p, 35.

  7. Edgar Morin, La sfida della complessità, Firenze, Le Lettere, 2017, p, 23. Da La sfida di Edgar Morin, saggio introduttivo di Annamaria Anselmo.

  8. Benjamin Labatut, Maniac, Milano, Adelphi, 2023, p, 327.

  9. Heinz. R. Pagels, Il codice cosmico, Torino, Bollati Boringhieri, 2016, p, 77.

  10. Edgar Morin, Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione, Milano, Raffaello Cortina, 2015, p, 19.