Un’applicazione locale dell’Ecologia Profonda…
Abitare l’Utopia: «Questa terra viva che scorre È tutto quel c’è, per sempre. Noi siamo lei Lei canta attraverso noi…»
Sono solo alcuni dei numerosi versi che aprono e accompagnano alla lettura di Nel Mondo Poroso del poeta ecologista Gary Snyder (San Francisco, 1930), un libro curato per la collana Eterotopie nelle Edizioni Mimesis (2013) da Giuseppe Moretti, contadino biologico, redattore della newsletter “Lato Selvatico” e membro fondatore di “Sentiero Bioregionale”.
Perché poroso? Perché qualunque cosa sfuma intersecandosi nell’altra; perché il mondo non è schematizzabile in “materia” da una parte e “spirito” dall’altra, tantomeno è riducibile ad apparenti dualismi contrapposti come “uomo” e “natura”, “urbano” e “rurale”, “coltivato” e “selvatico”, ma è in un incessante fluire che non è crescita illimitata come il dominante modello consumistico vorrebbe far intendere.
Essere consapevoli di questo significa entrare nel grande flusso dell’esistenza; indica che la tutela del territorio e dell’ambiente naturale ha più a che fare con il buonsenso e la lungimiranza piuttosto che con la tradizionale contrapposizione “sinistra/destra”.
«La scienza dell’ecologia – afferma Snyder – ci mostra che la natura non è semplicemente un insieme di specie separate tutte in competizione tra di loro per la sopravvivenza, ma che il mondo organico è composto da tante comunità di esseri differenti, in cui tutte le specie giocano un ruolo diverso ma essenziale».
Con il sottotitolo saggi e interviste su luogo, mente e wilderness l’autore focalizza alcuni punti centrali delle sue opere: luogo, per rappresentare il significato di ri-abitare un ambiente in senso bioregionale; mente, sottendendo al processo mentale e culturale legato al ri-diventare “cittadini” della terra; wilderness, come ricerca della nostra discendenza dalla natura che crea e sostiene la vita, la stessa per tutto ciò che vive e prospera nel mondo. Per Snyder – poeta dell’ecologia profonda e figura centrale della controcultura degli anni ’60, considerato uno dei principali ispiratori del bioregionalismo – il dibattito cruciale nel mondo ambientalista contrappone chi parte da una mentalità antropocentrica di gestione delle risorse e chi propone valori che riflettono la consapevolezza dell’integrità della Natura nella sua interezza.
Quest’ultima posizione, quella dell’Ecologia Profonda (neologismo coniato dal filosofo e alpinista norvegese Arne Næss per descrivere qualcosa che già era e che faceva parte del nostro sentire ancestrale) è più vivace, coraggiosa, conviviale, rischiosa e scientifica.
Mai come oggi il futuro apre ad una molteplicità di scenari, dai più catastrofici e drammatici, ai più creativi e spirituali. Tuttavia le tendenze autodistruttive di scala planetaria e tutte le contraddizioni che stanno delineandosi a causa dei meccanismi omologanti messi in atto da politiche sviluppiste che non tengono conto dei corretti indicatori del benessere delle persone e della biosfera, ma solo dei fallaci dati del PIL, trovano spiragli ottimistici grazie alla prospettiva bioregionale.
Come lo stesso autore ricorda abbiamo ancora l’opportunità di imparare dalle culture tradizionali del posto, perché se è vero che il futuro è nelle nostre mani, per imparare di nuovo a vivere nel proprio luogo è necessario compiere uno sforzo che porti al superamento dei “confini artificiali” e ritornare al mondo naturale, con i bacini fluviali e le connessioni ecologiche come sottofondo principale per il nostro abitare.
Tale approccio lo accomuna non solo a Thomas Berry (1914-2009), ecoteologo e storico delle culture per il quale la Terra esprime se stessa non in territori omogenei ma in varie regioni differenti l’un l’altra, per cui abbiamo solo bisogno di ascoltare ciò che la Terra ci sta dicendo, ma anche a Peter Berg (1937-2011), altra anima del bioregionalismo, secondo il quale la bioregione è tanto il terreno geografico quanto il terreno della coscienza.
Eduardo Zarelli, saggista e pubblicista convinto sostenitore di decrescita, comunitarismo e bioregionalismo, ben chiarisce il significato del termine “bioregione” composto della parola greca bio, che significa vita e “regione” derivata dal latino regere, cioè governare; quindi la vita che si autogoverna nel limite biotico di un territorio abitato, un luogo definito dalle forme di vita che vi si svolgono piuttosto che da decreti legge: “una regione governata dalla natura”.
Questa sensibilità, come pratica di un’ecologia localista, viene riaffermata anche in un suo articolo del 2007 in cui scriveva: «La pluralità delle identità comunitarie evita i rischi di accentramento del potere e quindi di colonialismo o imperialismo. La complementarietà e lo sviluppo di una fitta rete di relazioni intercomunitarie – tra cui la sussidiarietà e l’interdipendenza – possono definire con sufficiente approssimazione l’intento di un “federalismo ecologista”, di assoluta attualità dato il destino tecnocratico dell’unità europea.
Il problema di fondo è di ripensare pluralisticamente il mondo fuori dall’Occidente, dal suo universalismo monistico e dalla sua centralità etnocentrica rispetto alla quale tutto diventa periferia. Bisogna comprendere, per dirla con Mircea Eliade, che “in ogni posto c’è un centro del mondo” possibile. E quel “centro del mondo” è, per ogni uomo, la sua identità personale e comunitaria, il suo specifico territorio umano, naturale e culturale, supportato dalla biodiversità. Saranno la reciprocità economica, il paritario scambio culturale, il viaggio e l’ospitalità a tessere, come capi opposti di un unico filo, le trame di una convivenza qualitativa tra le diversità, appagando la necessità profonda, per noi moderni, di ritrovare nel contatto e nel confronto con l’altro da sé, la radice della nostra cultura, la risposta al disagio esistenziale indotto dalla civilizzazione di massa: una risposta alla insopprimibile ansia di radicamento».
Fondata nel 1996 come incontro di varie realtà che si riconoscono nella visione dell’ecologia profonda e del bioregionalismo, la “Rete Bioregionale Italiana” consente libertà di azione locale e il perseguimento di fini comuni, collegati e coniugati ai diversi territori e tematiche bioregionali.
«La bioregione – recita testualmente il Documento d’Intesa della Rete – è un luogo geografico riconoscibile per le sue caratteristiche di suolo, di specie vegetali ed animali, di clima, oltre che per la cultura umana che da tempo immemorabile si è sviluppata in armonia con tutto questo.
Per bioregionalismo si intende la volontà di ri-diventare nativi del proprio luogo, della propria bioregione. Possiamo fare tutte le scoperte possibili, usare la tecnica, la scienza; possiamo andare sulla luna e comunicare via satellite, ma alla base della nostra sopravvivenza fisica, psichica e spirituale vi sono questi alberi, queste erbe, questi animali, queste acque, questo suolo del luogo dove viviamo. L’evoluzione sociale e tecnologica è ecologicamente compatibile solo in “piccola scala”, localmente, e se rimane ancorata ad una visione olistica del sapere.
L’idea bioregionale consiste essenzialmente nel riprendere il proprio ruolo all’interno della più ampia comunità di viventi e nell’agire come parte e non a parte di essa, correggendo i comportamenti indotti dall’affermarsi di un sistema economico e politico globale, che si è posto al di fuori delle leggi della natura e sta devastando, ad un tempo, la natura stessa e l’essere umano.
Il bioregionalismo si rifà ai principi ecocentrici, riconoscendo che l’equilibrio ecologico esige una profonda trasformazione nella percezione che abbiamo come esseri umani riguardo al nostro ruolo nell’ecosistema planetario. Questa consapevolezza non è qualcosa di completamente nuovo, ma affonda le sue radici negli antichi saperi popolari (nativi americani, aborigeni australiani, ecc.) e nelle grandi tradizioni spirituali occidentali e orientali.
Il modo più appropriato per iniziare a ri-abitare non è attraverso leggi o regolamenti imposti, ma ponendosi in prima persona in relazione al luogo in cui si vive: scoprendone i significati, gli scambi, individuandone i contorni, dedicandosi ad attività sostenibili con la propria bioregione.
Queste sono alcune delle prime cose da attuare e, in tale campo, siamo tutti apprendisti.
L’idea bioregionale punta ad inserirsi nelle pieghe della società; per riuscirci, diverse possono essere le modalità, i linguaggi e le forme, ma, al di là delle differenze, ciò che accomuna i bioregionalisti è la consapevolezza di essere parte interdipendente di un insieme senziente.
L’idea bioregionale è ispirata dai sistemi naturali selvatici; per sua natura, pertanto, si esprime attraverso la forma decentrata.
Nell’introdurre questo concetto, si richiede la sensibilità di esporlo in modo che ogni persona, gruppo o realtà sociale lo senta proprio e nel proprio luogo si organizzi per radicarlo».
Ma come e da dove cominciare? In un post pubblicato lo scorso ottobre sul blog “Cafe Virtuel” in occasione della grande eco sul referendum per l’Indipendenza della Catalogna, Paolo D’Arpini, uno dei fondatori del Movimento Bioregionale in Italia sin dai tempi in cui risiedeva a Calcata, partendo dall’assunto che il bioregionalismo si riconosce soprattutto nelle identità locali individuate principalmente nell’ambito municipale e provinciale (ambiti territoriali in cui una comunità di solito irradia la sua influenza culturale), ribadiva la necessità di restituire dignità e salvaguardare i diritti delle piccole comunità locali.
Tuttavia le Regioni, così come impostate e studiate a tavolino, si pongono come stati antagonisti sia per lo Stato Italiano che per l’Europa stessa che faticosamente sta cercando di trovare un’identità condivisa.
A suo dire se degli Enti inutili vanno eliminati, bene sarebbe abolire le Regioni ritenute mini-stati all’interno dello Stato, che non rappresentano interessi di omogeneità culturale e bioregionale, ma solo di gestione economica e partitica.
«Il bioregionalismo – sostiene D’Arpini – riportando in auge sia il rispetto della vita in termini di ecologia profonda sia il riconoscimento dell’identità locale, è l’unico metodo che possa garantire equanime distribuzione e pari dignità alle diverse presenze degli abitanti della Comunità Europea. Quindi l’Europa, politicamente unita, andrebbe suddivisa in ambiti bioregioniali (e non in Regioni o in Macro-Regioni, come proposto da alcune forze politiche), poiché abbiamo visto che le amministrazioni Regionali per loro natura tendono ad essere separative e indifferenti agli interessi delle comunità locali (dovendo infatti difendere la loro strutturazione spuria ed anomala rispetto alla identità bioregionale)».
Trasferitosi a Treia (MC) nel 2010, Paolo D’Arpini ben conosce la nostra realtà territoriale avendo vissuto per anni prima a Roma e poi a Calcata da dove ha rilanciato messaggi di ecologia profonda e di spiritualità laica – tra cui la proposta del bioregionalismo – sostenendo diverse battaglie per la salvaguardia di Calcata e delle falde acquifere della Valle del Treja. In particolare si ricordano quelle per il salvataggio di trecentomila mucche da immolare alla CEE, oltre a quelle contro l’inceneritore con discarica da installarsi a Civita Castellana e il mega-lunapark che si voleva realizzare a Campagnano, in aree soggette a tutela come da Piano Paesistico della Regione Lazio.
Interpellato in merito all’ipotesi di una “Ristrutturazione del Lazio” in chiave bioregionale, riporto di seguito quanto da lui stesso resomi: «Negli ultimi anni è andata maturando una coscienza ecologica e sociale, una considerazione delle diverse necessità delle varie realtà urbane e suburbane, che richiede una revisione generale degli attuali modelli e confini regionali.
Tanto per cominciare esiste la realtà dei grandi agglomerati metropolitani, come ad esempio Roma, ed esiste poi la realtà delle piccole città, dei villaggi e del territorio agricolo e boschivo. Va da sé che l’amministrazione di entità che manifestano differenze così sostanziali non può essere gestita in modo “centralistico”, che altrimenti gli interessi dei grossi agglomerati porterebbe alla fagocitazione e rovina dei centri meno popolosi ed al loro snaturamento. Anche l’istituzione delle cosiddette “aree vaste”, per una collaborazione intercomunale nei servizi, etc., non aiuterebbe il mantenimento dell’identità locale se non corroborata dall’esigenza primaria della conservazione dell’habitat e delle risorse naturali.
In Europa già da tempo si sta attuando una politica “decentrativa” separando l’amministrazione delle grandi città da quella del territorio extraurbano. Ad esempio vedasi Parigi oppure Monaco di Baviera, entrambe definite “Città Regione” indipendenti dal resto del territorio.
In Italia se osserviamo la situazione amministrativa del Lazio, vediamo che l’ente Roma Capitale è solo un’operazione d’inglobamento delle realtà rurali limitrofe con accorpamento del territorio provinciale. Secondo il criterio bioregionale da noi proposto, invece, Roma ed una ristretta area metropolitana dovrebbe assurgere allo status di Città Regione. E a quel punto non vi sarebbe nulla di strano nello scorporare l’amministrazione regionale in due enti: Roma Capitale e Lazio storico. Se ciò avvenisse, come avrebbe dovuto già avvenire, questo riaggiustamento sarebbe un buon sistema di rivalutazione per il territorio e per le piccole comunità.
L’attuale perimetrazione del Lazio, ricordiamolo, è il risultato di un ragionamento politico accentrativo (attuato subito dopo l’Unità d’Italia e successivamente durante il fascismo) il cui risultato fu lo smembramento delle realtà amministrative preesistenti. Ovvero la Tuscia storica fu smembrata fra la Toscana e il Lazio, e qui ancora separata in Tuscia viterbese e Tuscia romana. Altrettanto accadde con i centri della Sabina, con Rieti tolta all’Umbria e con diversi altri centri inseriti nella provincia romana e così pure avvenne nella Ciociaria, suddivisa fra Roma e Frosinone, e nella provincia di Latina creata ex novo in seguito alla bonifica pontina ed integrata da territori dell’ex Regno di Napoli.
A ben guardare, l’identità bioregionale di Roma Capitale ed area metropolitana, in senso stretto, dovrebbe corrispondere agli stretti limiti dell’espansione urbana e adiacenze. Poiché è ovvio che le realtà civiche periferiche della attuale provincia di Roma andrebbero restituite ai loro ambiti originari, anche per un riequilibrio nel numero degli abitanti. Altrimenti, se tale operazione di riequilibrio non fosse attuata, la nuova Regione metropolitana di Roma, se compresa negli attuali confini della sua provincia, raggrupperebbe oltre i quattro quinti dei residenti totali nel Lazio, il che non aiuterebbe assolutamente il territorio a crescere, dovendo soddisfare le esigenze di servizi passivi da parte della metropoli. La metropoli deve imparare ad essere autosufficiente».
Abbiamo aperto questo generico accenno al bioregionalismo con Gary Snyder (Premio Pulitzer 1975 per la poesia con L’Isola della Tartaruga) e con lui chiudiamo riportando una dichiarazione rilasciata nel corso di un’intervista del febbraio 2005.
Alla domanda: «Il bioregionalismo è solo un movimento culturale o anche politico?» il poeta rispose: «Il nostro è soprattutto un movimento educativo che tende all’autogoverno all’interno delle strutture presenti. Uno dei motivi per cui il bioregionalismo è nato in Nord America, prima che in altri paesi, è perché qui da noi i confini politici tra i vari stati non hanno niente a che fare con quelle che sono le caratteristiche orografiche e biologiche dei vari paesi, sono solo linee rette che tagliano a metà colline, montagne e fiumi. Quello che proponiamo è rivalutare le bioregioni, disegnate secondo i confini naturali tracciate dai rilievi montuosi, ma questo non per sottolineare la specificità etnica o linguistica di un’area, ma per gestirne meglio le risorse idriche, agricole e forestali. Spesso il decentramento e il federalismo mascherano nuove forme di nazionalismo, decisamente di destra e potenzialmente fascista; mentre il nostro slogan è: “Pensare globalmente, agire localmente”».
Nonostante l’importanza dei temi proposti dalla “Rete Bioregionale Italiana” (neppur marginalmente e trasversalmente sfiorati da tutti gli schieramenti politici durante l’ultima campagna elettorale), il dibattito sulle questioni ambientali ed energetiche, sulla transizione verso l’industria 4.0, su agricoltura, ricerca, mobilità e proposte di riassetto territoriale in chiave bioregionale è rimasto pressoché fuori da una competizione rivelatasi come ennesima occasione persa.
Nello sconfortante silenzio della scena postmoderna riecheggiano ancora le parole del filosofo sudcoreano Byung-Chul Han quando affermava che alla società attuale non è più applicabile il paradigma della biopolitica, bensì quello della “psicopolitica”. Per il noto autore di saggi sull’ipercultura e la globalizzazione «il potere non disciplina più i corpi ma plasma le menti, non costringe ma seduce, sicché non incontra resistenza perché ogni individuo ha interiorizzato come propri i bisogni del sistema».
Italo Carrarini – Rete Bioregionale Italiana
“Fonte: LA PIAZZA DI CASTEL MADAMA”