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Sviluppare un rapporto paritetico con tutti gli animali…

 

Il nostro rapporto con gli animali: com'è cambiato nel tempo

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Il mio lavoro come  veterinaria  mi ha portata a contatto quasi quotidianamente con allevamenti di animali allevati per la produzione di carne e derivati, latte e derivati, uova.

Durante i miei studi ho appreso le tecniche dell’allevamento intensivo, le strutture, le diverse tipologie di questo allevamento, a seconda della specie e dell’attitudine degli animali allevati, come se l’unico sistema (o almeno il migliore)  fosse questo: ho superato esami di zootecnia e di tecnica mangimistica in cui l’allevamento rurale non era neanche contemplato. Gli animali in questi allevamenti sono tenuti costantemente confinati se non addirittura al chiuso per tutta la loro vita. Per molti di essi (suini, pollame) l’unico momento in cui vedono la luce del sole é l’uscita dall’allevamento per il macello.

Tempo  fa un’amica mi ha chiesto (in qualità di “esperta) di accompagnarla al mercatino della domenica di Spilamberto, in cui si vendono varie categorie di pollame, perché voleva acquistare alcune galline. Mi sono preoccupata perché pensavo volesse acquistarle per ucciderle e cucinarle, invece, fortunatamente, voleva metter su un piccolo pollaio, per avere un po’ di uova. Un piccolo allevamento rurale, quindi. Beh, dopo l’acquisto siamo andate dove ha il terreno e un casotto recintato, con un bel pezzetto di terra per sistemarle. Con tutti i cinque anni di università e 52 esami sostenuti, mi sono sentita alle prime armi: cosa va messo sul fondo del pollaio? all’interno del casotto è bene mettere dei ripiani alti con delle cassette-nido? il casotto va chiuso di notte con loro dentro? L’acqua e le granaglie vanno messe dentro o fuori? Devo ricominciare tutto da capo e l’esperienza di qualche vero contadino, di quelli di una volta è molto più ricca e utile delle mie conoscenze scolastiche.

Si sta creando attorno all’allevamento intensivo un movimento di opinione, che punta il dito sulla sofferenza che questo ingenera in esseri viventi che fanno parte del nostro stesso mondo, che condividono con noi questo passaggio sulla nostra bella e martoriata Madre Terra e sui danni diretti e indiretti da esso causati.

Dall’altra parte, c’è ancora una moltitudine di operatori, che di questo lavoro vivono, anche se con profitti molto più modesti di una volta; penso agli anni ’70 col boom della fettina ogni giorno ed io sono cresciuta in quegli anni, con quel sistema. Sembra che la riconversione di queste attività sia impossibile e si può anche capire che persone che hanno investito tutte le loro risorse, competenze, e aspettative per un futuro tranquillo per loro e magari anche per i loro figli, non siano favorevoli a  buttare tutto al macero e ricominciare sul nuovo, con una nuova consapevolezza.  Questa consapevolezza tarda a diffondersi in certi settori e strati culturali e non voglio giudicare.

Ci sono tradizioni gastronomiche e culinarie che sono il simbolo di certe regioni e che una gran parte della popolazione tiene a mantenere ed anzi a consolidare e a diffondere, se possibile. E quindi, se in generale diminuisce il consumo della carne (ma non so di quanto), si cercano nuovi mercati e allora si cerca di “sfondare” in altri Paesi. Con le difficoltà burocratiche e le incertezze dei mercati che la cosa comporta.

E poi si assiste a una campagna contro l’uccisione degli agnelli e dei capretti per Pasqua. Questi animali vivono poche settimane prima di essere macellati, ma almeno quelle poche settimane le vivono bene, l’allevamento degli ovicaprini é ancora un allevamento naturale o abbastanza naturale, mentre ad esempio, il vitello viene tolto dalla madre appena nato, nutrito con latte artificiale e, anche se nell’allevamento sono rispettate le norme sul benessere  animale (si fa per dire) , rinchiuso in una gabbia di ampiezza appena sufficiente per girarsi per un mese e poi trasferito in un box con altri suoi simili. I suini non hanno un trattamento migliore. Se dobbiamo essere contrari all’uccisione degli animali non possiamo essere emotivi e intenerirci per un’immagine da copertina. Ma va bene perché parlando degli uni si parla degli altri.

Io, del resto, non sono completamente contraria al consumo di prodotti di origine animale, ma sono favorevole  all’uso morigerato che se ne faceva  prima dell’avvento dell’allevamento industriale. Sono convinta che l’agricoltura ha bisogno del concime animale, non certo della quantità di letame e liquami che attualmente vengono prodotti e che inquinano sempre più le falde acquifere e l’atmosfera o, in alternativa, comportano un costo esorbitante per lo smaltimento, con depuratori che raramente funzionano secondo le ottimistiche previsioni con cui furono costruiti.

Questo tipo di allevamento comunque ed i problemi etici che comporta fa parte del sistema economico in cui ci ritroviamo volenti o nolenti immersi: a fronte della meccanizzazione del lavoro, della informatizzazione dei servizi, il lavoro, nonostante la disoccupazione, per chi un lavoro ce l’ha, non é diminuito e ci possiamo considerare “schiavi” del lavoro. Un contadino, per poter giudagnare abbastanza da vivere deve lavorare 12 ore al giorno e sfruttare con metodi artificiali (concimi di sintesi, antibiotici negli animali) le risorse che ha a disposizione, ma anche il più fortunato impiegato le sue 8 ore le deve fare e così via.

Una volta c’era lo slogan “lavorare meno lavorare tutti” oggi, chi ci governa dice che per salvare l’Italia dobbiamo lavorare di più, per più tempo e in di più. Ma, lavorare tanto, per fare cosa? Per produrre cosa? Beni, molte volte inutili, che gli altri dovranno acquistare a costo di sacrifici per poter perpetuare il sistema. La meccanizzazione, l’informatizzazione sarebbero dovute servire per alleggerire la vita e lasciare all’essere umano più tempo per il resto della vita, l’amicizia, le relazioni sociali, l’amore, la cura di noi stessi e degli altri, dei nostri figli, dei nostri anziani, il riposo,

Smettiamo di consumare beni inutili, impariamo ad accontentarci, a riappropriarci delle nostre innate capacità di sopravvivenza, pensando al futuro nostro e del pianeta.

Caterina Regazzi – Rete Bioregionale Italiana