Per campi e boschi cercando un po’ d’erba…
E’ facile, nei climi clementi, praticare il lavoro più antico del mondo: la raccolta di vegetali selvatici, venuti su da soli, senza cure né padroni. Ecologico e pacifico. Basta inoltrarsi in un bosco o anche solo imboccare una strada di campagna, posare l’attenzione sui suoi bordi verdi e staccare delicatamente foglie e bacche. Un centinaio di metri e il cesto si riempirà; almeno una quindicina di specie. In piena estate, se gli alberi danno refrigerio al terreno in certe ore della giornata, si possono trovare ortica, finocchiella, menta, melissa, malva, piantaggine, diversi tipi di cicoria, lattuga e carota selvatiche, gramigna, vitalba, tarassaco, e more e sambuco. C’è anche il gigantesco tasso barbasso (verbascum thapsus) ma serve a poco, perché è giusto un sostituto del tabacco. In primavera è un rigoglio di germogli da cura disintossicante, mangiando.
Res nullius, bene di tutti.
Nei boschi che resistono, nei campi non avvelenati e intorno alle stradine sterrate, le piante spontanee che gli anglosassoni chiamano «volontarie» sono res nullius, cosa di nessuno e di tutti, bene comune gratuito e abbondante da quando le donne della preistoria portavano a «casa» molto più cibo dei maschi cacciatori, raccogliendo erbe, semi, frutti spontanei.
Si dice fitoalimurgia l’alimentazione con piante selvatiche; diversa dalla fitoterapia perché per prevenire o alleviare piccoli disturbi, disintossicarsi e fare il pieno di sali minerali e vitamine ricorre non a tisane o infusi ma a risotti, minestre arricchite di erbe, insalate e macedonie (crudo è meglio). L’antica pratica è stata ampiamente messa in pratica in Europa durante le guerre del Novecento ed è in uso tuttora in molte parti del pianeta, là dove sopravvivono foreste e aree verdi; integra l’alimentazione dei poveri sia in condizioni di normale miseria sia nelle emergenze; quante volte si è letto distrattamente dei coreani del Nord o dei sudanesi o degli afgani ridotti a «mangiare erbe selvatiche»? Da noi non è in gioco la sopravvivenza, ma avvicinarsi alle pratiche del Sud del mondo imparando a riconoscere, raccogliere e conservare le erbe e i frutti spontanei, ricollega alle radici (diremmo anzi alle foglie), fa bene alla salute e alle tasche e diventa in fretta una passione leggera, più rinfrescante che bruciante. Fra le informazioni che si scambiano i Bilanci di giustizia, seicento famiglie italiane impegnate a riformare il budget domestico secondo criteri eco-sociali, ci sono le modalità di raccolta e trasformazione delle erbe e dei frutti selvatici.
Il Circolo Vegetariano VV.TT. di Calcata e le sue erbe.
L’unico ferro del mestiere è un buon manuale con le foto e indicazione delle parti commestibili. Ma le prime uscite sul campo vanno fatte con un insegnante: per imparare a conoscere e raccogliere senza danni – alla salute e alla vegetazione – almeno alcune decine di «erbe base nostrane» fra le 20.000 commestibili che spuntano sul pianeta, anzi che fioriscono… molti non sanno che si possono mangiare in insalata la primula, il fiore della malva, il nasturzio, la speronella, l’acacia.
In un pomeriggio di agosto, Paolo D’Arpini di Calcata (Viterbo), impedisce agli «allievi» di raccogliere le infiorescenze bianche al sapore di carota, perché gli sembra che ce ne siano poche; e raccomanda di prendere poche foglie per ogni piantina. Pastori, contadini e capre sono stati i maestri di botanica di Paolo, che dal 1984 anima il Circolo vegetariano Vv.Tt in quel particolarissimo villaggio laziale su uno sperone altissimo di tufo. Nessuno ha mai saputo bene cosa significhino quelle quattro lettere nel nome del Circolo ma la sua storia è densa: sensibilizzazione vegetariana ed ecologica; difesa dei luoghi e delle tradizioni locali; petizioni sugli olocausti preventivi di vacche presunte pazze; pensionato di galline montoni conigli e capre sottratti al destino di finire inforchettati e colà invece mantenuti a mais ed erba con alcune «adozioni a distanza», insufficienti a inserire fra gli ospiti anche maiali e buoi.
Si mettono a memoria molte erbe in un minicorso pomeridiano con Paolo, anche se di molte non conosce i nomi latini: lezioni gratuite per chi ha faccia tosta, di una decina di euro cena compresa per chi pensa che la trasmissione della conoscenza vada ricompensata, anche quando l’insegnante è troppo timido. L’imbrunire conclude il corso; si sale un sentierino fra gli alberi (da uno pende da anni un bambolotto nudo e scolorito) per andare cucinare l’acquacotta nel «tempio della spiritualità laica», un boschetto con grotte un tempo rifugio di animali e forse uomini, ora gestito dal VvTt.
Paolo spiega: «Tornando dai campi, uomini e donne si attardavano ancora un po’ strada facendo, per raccogliere le diverse erbe che non di rado, insieme a un po’ di pane e a un filo d’olio, erano il pasto serale. Finché c’era un po’ di luce c’era da fare anche intorno a casa; intanto le erbe cuocevano. Bisogna aver pazienza…