Far rivivere gli orti urbani bioregionali…
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Da diversi anni mi sono trasferito a Treia, un tipico borgo marchigiano in provincia di Macerata che a Macerata molto somiglia, in piccolo, almeno nella struttura architettonica, essendo circondato da mura maestose, in buono stato di conservazione, e con al suo interno numerosi spazi verdi. Questi spazi, nei tempi che furono, avevano la funzione di garantire l’approvvigionamento minuto di vegetali freschi. Vengono infatti ancora definiti “orti urbani”. I tempi son cambiati e non ci sono più rischi, perlomeno si spera, che la città venga assediata da truppe nemiche e che quindi in qualche modo debba sostenersi con quel poco che riesce a produrre al suo interno. Molti di questi “orti urbani” di Treia oggi sono stati trasformati in giardini, sia pubblici che privati, oppure son diventati prati e boschetti per far giocare i bambini o come luoghi di relax per anziani.
Anche noi, grazie alla mia compagna Caterina, disponiamo di un orto urbano che è una via di mezzo tra quelli dedicati alla coltivazione e quelli che vengono lasciati alla natura. Potrei chiamarlo un “orto urbano bioregionale”, ovvero un terreno racchiuso fra le case con qualche albero da frutto e con erbe officinali e commestibili che vi crescono quasi spontaneamente. Infatti questa è la differenza tra un terreno completamente abbandonato ed uno in cui la presenza dell’uomo si fa ancora sentire, non però invasivamente, e questa mi sembra una giusta via di mezzo per convivere con altri esseri nella natura, senza rinunciare alla socializzazione ed al godimento di raccogliere una produzione propria.
Ovviamente l’orto di cui vi parlo non è stato inquinato da sostanze chimiche. Piccoli accorgimenti sono stati da noi presi per la conservazione delle acque piovane come pure cerchiamo di trovare sistemi biologici per contrastare l’eccessiva presenza di animaletti considerati “nocivi” (lumache, insetti e pidocchi delle piante, etc.). Infatti la presenza dell’uomo in un orto “bioregionale” dovrebbe essere quella del “calmieratore” e dovrebbe contribuire all’armonizzazione del biosistema che spontaneamente si viene a creare.
Generalmente le persone sono abituate a pensare che un orto debba essere un fondo ben lavorato ed in cui crescono pomodori, zucchine, peperoni, melanzane, patate, etc. Senza però considerare che tutti questi vegetali non sono autoctoni, non appartengono alla nostra storia alimentare, sono stati tutti importati dalle Americhe e sono diventate la base della nostra alimentazione. Cosa cresceva negli orti marchigiani sino a duecento o trecento anni fa? Partendo da questo interrogativo dovremmo cercare di fare un passo indietro e scoprirlo con i nostri occhi frequentando quei pochi terreni in cui l’uomo non è intervenuto massicciamente.
Potremmo cominciare individuando tutta una serie di piante commestibili ed officinali che ancora crescono stagionalmente in natura: ramolaccio, erbe aromatiche, crespigni, agli selvatici, cicorie, piantaggine, porcacchia, finocchiella, etc. Potremmo raccogliere i semi di queste piante e spargerli a spaglio nel nostro orto e vedere quali riescono ad attecchire. Molte piante crescono bene in compagnia e se si vuole mantenere l’umidità naturale nel terreno non sarà necessario vangare o zappare per estirpare l’erba che non ci interessa.
In fondo ogni erba può avere la sua funzione anche quella che ci sembra la più inutile o infestante. Certo se scopriamo che un certo tipo di pianta tende ad allargarsi troppo possiamo cercare di contenerla. Questo- ad esempio- è il caso della parietaria, che cresce spontanea in prossimità dei muri, ma non è poi così inutile infatti è un’erba mangereccia, ricca di minerali e di calcio, tant’è che le galline ne vanno ghiotte. Ciò significa che nel nostro orto urbano bioregionale potremmo anche tentare di tenere un paio di questi volatili, in modo da poterci disfare con profitto delle erbe in eccesso ed anche delle lumache e degli insetti, ed anche questo è stato un esperimento da noi tentato, con due galline di batteria salvate dal macello, purtroppo non andato a buon fine per l’ostilità di alcuni vicini non più abituati alla presenza di animali da cortile.
Altro animaletto che avevamo pensato di accogliere è il riccio, utilissimo a limitare la presenza di pest ma non ne abbiamo ancora trovato uno disposto a trasferirsi. In compenso l’orto è frequentato da alcuni gatti che lo tengono libero dai roditori indesiderati.
Ma ora torno all’analisi delle coltivazioni possibili. Dopo aver osservato quali tipi di piante si acclimatano e si riproducono nel piccolo spazio verde a nostra disposizione siamo in grado di capire quali altri vegetali possono essere inseriti nel contesto, si tratta di biete, cicorioni, spinaci, brassicacee, agli e cipolle, etc. Avrete notato che non ho per nulla menzionato i soliti ortaggi che conosciamo, quelli che vi descrivevo all’inizio del racconto, ed infatti -secondo me- nell’orto dovrebbero crescere solo piante adatte al territorio ed al clima in cui viviamo. Così, stagionalmente, vi abbiamo inserito quei piccoli pomidorini gialli che crescono da soli, quasi senza acqua, ed i topinambur che non richiedono grandi cure.
In questo orto bioregionale di Treia ci stanno anche quattro piante di olive di San Francesco, piantate dai genitori di Caterina, ottime da fare in salamoia per l’inverno. Non mancano rosmarino ed altre aromatiche in modo da avere sempre a disposizione foglie per tisane e per condimenti.
Credo che ciò possa bastare per vivere in città facendo pace con la natura.
In questo modo il toccare la terra ci diviene sempre più familiare ed è più facile coinvolgere i neofiti nell’azione collettiva di dedicarsi ad una produzione casalinga di cibo sano. Il diverso sapore ci fa capire l’importanza dell’autoproduzione e la conoscenza di erbe spontanee commestibili (a portata di mano) aiuta la sopravvivenza creativa e la buona qualità della vita.
Paolo D’Arpini – Rete Bioregionale Italiana
Paolo D'Arpini
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