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Bioregionalismo. Tornare  alla Terra…

 

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La grave crisi in cui versa il movimento ambientalista italiano, in particolar modo le sue componenti più istituzionalizzate, è indubbiamente un dato di fatto incontrovertibile.  L’interesse per l’ambiente riguarda una percentuale estremamente minoritaria degli italiani, ma che indubbiamente riveste una sua importanza ai fini della valutazione del possibile “appeal” di un’istanza che in qualche modo radicalizzi la questione ambientale, riportandola al centro del dibattito politico.

Riferimento primario della “nuova età” ambientalista è sicuramente il “bioregionalismo”.  Punti cardine per  il ripristino e la conservazione dei sistemi naturali, la ricerca di tecnologie sostenibili che consentano la soddisfazione dei bisogni primari dell’uomo (cibo, acqua, energia, casa, ma anche cultura), il rapporto con il territorio abitato e selvatico. Mentre una costante di  diversi gruppi che si ispirano ad esso è rappresentata dal fatto di ispirarsi allo stile di vita  naturalistico delle comunità indigene,  da sempre legate in un rapporto “sacrale” al territorio, abitato e selvatico, e più in generale all’intero pianeta.  Quella Gaia degli antichi greci da cui ha preso il nome l’ ipotesi di James Lovelock, che considera l’intera terra un tutto vivente capace di omeostasi.
 
Come retroterra più specificatamente “filosofico” del movimento vi è poi la cosiddetta “ecologia profonda”, una dottrina che propugna l’ecocentrismo, cioé la considerazione degli interessi primari della Natura come punto di partenza dell’agire politico e sociale, con conseguente rimodellamento dei comportamenti umani non “compatibili” con tali interessi.
La storia del bioregionalismo italiano parte dall’attenzione a questo tipo di tematiche mostrato, già all’inizio degli anni Ottanta, da alcune riviste, in particolar modo AAM Terra Nuova, legate strettamente alle pratiche di allevamento e agricoltura alternative e a tutte attività che il movimento bioregionalista mette al centro del proprio progetto di trasformazione socio-economico del territorio.
 
Il bioregionalismo italiano ha diverse anime, alcune delle quali difficilmente compatibili fra di loro, che da una parte rendono il “messaggio” politico meno coerente e dall’altra ne evidenziano i notevoli limiti “tecnici” quando si tratta di passare dalle pur fascinose enunciazioni teoriche all’applicazione politica e pratica in una realtà socio-ambientale quale è quella europea e, più specificatamente, quella italiana.
L’opposizione fra locale e globale è da sempre parte del patrimonio ambientalista, e i bioregionalisti l’hanno ripresa e sviluppata guardando, come dicevamo, soprattutto alle tradizioni ancestrali che spesso, proprio partendo da un legame “magico” e sacro con il territorio, danno vita ad economie perfettamente sostenibili e a basso impatto ambientale.
L’equazione fra società tradizionali (o comunità “locali”) e rispetto nella Natura non può peraltro essere considerata un fatto scontato. Sono moltissimi infatti gli esempi, nel passato, di realtà sociali pre-industriali che sono riuscite ad interferire pesantemente con i cicli naturali o ad apportare disastrose modificazioni a vaste aree geografiche prima di allora non toccate dall’azione dell’uomo. Tutta una serie di elementi fanno ad esempio concludere che l’estinzione di alcuni grandi mammiferi (orso delle caverne, mammouth, tigre dai denti a sciabola) siano state causate dall’azione predatoria operata, con le rudimentali armi e tecniche venatorie di cui essi disponevano, dai cacciatori neolitici. Tra il 4.000 e il 3.000 a.C., nel Peloponneso, in Grecia, un disboscamento selvaggio riuscì addirittura a provocare l’annientamento di una nutrita serie di insediamenti umani. Il caratteristico paesaggio delle Highland scozzesi è in realtà nient’altro che il risultato della totale distruzione ad opera dei nativi del manto boscoso che alcune centinaia di anni fa copriva per intero quelle terre. E gli esempi potrebbero continuare, evidenziando il fatto che il rispetto della natura non è parte integrante del patrimonio antropologico di tutte le civiltà tradizionali, ma solo di alcune di esse.
Quando poi ci si avvicina ai giorni nostri, si vede che le istanze localiste sono spesso appannaggio proprio di quei gruppi che frappongono a tutto i propri interessi economici o che, troppo spesso, agiscono secondo i dettami della classica sindrome N.I.M.B.Y. (not in my backyard, non nel mio cortile), secondo la quale un problema ambientale è risolto nel momento in cui lo si è riusciti a distanziare di un congruo numero di chilometri…
Se “piccolo è bello”, la semplice riduzione della scala non è evidentemente sufficiente, di per sé, al mutamento di una mentalità che ha fatto presto a sviluppare profonde e nefaste radici. Nelle metropoli, poi, quasi sempre localismo significa lotte fra poveri, intolleranza, razzismo, come testimoniano la lunga serie di proteste delle comunità urbane contro i soggetti deboli prodotti dal nostro modello societario. D’altronde quello del razzismo “differenzialista” è il lato oscuro della medaglia localista. 
Ovviamente qui non si parla di ecologisti  consapevoli,  si tratta di gruppi distanti dal movimento bioregionalista, la cui esistenza deve far però ragionare sulla pericolosità di un costrutto ideologico che si fondi esclusivamente sulla pura e semplice opposizione al modello globalista. 
Serge Latouche, studioso francese, appassionato sostenitore di tecnologie “appropriate” che rimarchino il primato del sociale sulla tecnica lo dice molto chiaramente: “L’economia mondo-capitalistica, che ha saputo reinventare su vasta scala la schiavitù, è perfettamente in grado di preservare in maniera durevole dei modi di organizzazione precapitalistici. Considerato il costo molto elevato della distruzione-adattamento, tali modi possono manifestarsi infinitamente remunerativi rispetto all’introduzione del modello salariale”.
Lo stesso Latouche, che da anni si batte contro quell’occidentalizzazione del mondo che ha portato alla distruzione su vasta scala delle economie indigene e rurali, è ben conscio del fatto che “la perdita dell’identità culturale e la nostalgia della socialità perduta sono facilmente  confondibili con ideologie di  stampo conservatore e di destra”.
La peraltro giusta e auspicata valorizzazione del patrimonio socio-culturale dei “nativi”, ci pone oltretutto di fronte un altro problema non secondario, che è quello della tendenza ormai mondiale alla creazione di società multiculturali e multirazziali, in particolar modo all’interno dei paesi industrializzati. 
Non può, in questo senso,  non inquietare leggere che “vanno riconosciuti i diritti universali degli abitanti, legati al proprio territorio da un legame profondo, simpatetico, che si avvalga di tecnologie appropriate, e di un’economia che conviva con le risorse locali completandosi -nella minor quantità possibile- con beni e produzioni esterne”, qualora tali sacrosanti diritti non vengano considerati automaticamente estensibili ai cittadini che a qualunque titolo sono parte integrante della popolazione di un territorio, venga o meno considerato lo stesso come unità bioregionale, posseggano o meno essi legami profondi con il medesimo.
Tutto questo per dire che non necessariamente il ritorno di un gran numero di “cittadini metropolitani” alla vita di campagna, auspicato dalla  rivista “Frontiere”, può essere considerato un fatto positivo per la salvaguardia e l’ampliamento delle residue zone di wilderness ancora esistenti sul territorio nazionale. Un parere questo, che fu  condiviso anche dal bioregionalista americano, Peter Berg (e dal coordinatore della Rete Bioregionale Italiana – Vedi:   https://paolodarpini.blogspot.com/2011/03/il-bioregionalismo-e-la-comunita.html).
“Vogliamo essere una città ecologicamente sostenibile -sostenne Berg-. Le autorità devono prendere decisioni sostenibili per la propria bioregione in materia di acqua, rifiuti, energia, cibo, cultura, educazione e arte pubblica. Il modo di vivere in città è molto importante. La gente oggi deve possedere una macchina per recarsi al posto di lavoro. Questi luoghi dovranno essere avvicinati, limitando così il numero delle macchine. (…) Gli abitanti della città devono diventare “pionieri urbani” in una wilderness di cemento, acciaio e vetro, sviluppando nuove forme urbane e, allo stesso tempo, ricostruendo la propria vita e il paesaggio urbano”. Ed ancora: “Le città sono consumatrici pure. Bisogna che diventino più responsabili e che si sviluppi reciprocità fra le zone urbane e il resto della bioregione”.
Si tratta, deve essere chiaro, di un’opzione radicale, che nulla ha a che vedere con lo pseudo governo “verde” di sindaci come Rutelli, ma che parte da una constatazione dell’esistente che non si culla nella speranza di improbabili ritorni di massa a quel passato bucolico che sembra a volte riapparire in molti superficiali proclami ecologisti dell’ultim’ora.
Le città possono e devono essere profondamente cambiate partendo dalla loro organizzazione urbanistica, in opposizione al trend di “apartheid” sociale interna che caratterizza lo sviluppo recente delle megalopoli, americane come, in forma meno esasperata, europee. Si può quindi restituire alla vita cittadina quei caratteri di comunità, quella ricchezza dei rapporti interpersonali, quel rapporto con la realtà contadina circostante, quel basso impatto ambientale che sono spesso propri dei piccoli centri, proprio a partire da una radicale modifica di quelli che sono i rapporti sociali fra abitanti.
È quella che Orin Langelle chiama l’ecologia rivoluzionaria (ma si potrebbe anche parlare di eco-socialismo) che “può essere la sintesi delle due posizioni (l’ecologia profonda e l’ecologia sociale, N.d.A.), unita ad altre: l’ecofemminismo mostra la connessione fra dominazione della donna e dominazione della natura; il sindacalismo rivoluzionario spiega la lotta di classe attraverso l’analisi degli opposti interessi dei lavoratori e dei capitalisti. L’ecologia rivoluzionaria accusa le pratiche di dominio antiegualitarie come parte di un meccanismo di controllo che sfrutta tutte le forme di vita del nostro pulsante e vivente pianeta”.
Ma il bioregionalismo, secondo una certa visione, punta soprattutto all’affermazione di un modello di vita naturalistico, al ritorno alla terra, al legame “spirituale” con essa, e quanto di tutto ciò possa diventare realtà in un tessuto regionale in genere fortemente degradato come è quello italiano, rappresenta una delle grandi incognite di questa proposta.
D’altronde la coesistenza di una dimensione locale e di una globale, veicolata ad esempio da uno strumento di comunicazione come Internet, è estremamente complessa. Se da una parte può essere considerato reale il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa (soprattutto le televisioni e le  reti informatiche), come attivo strumento del processo di occidentalizzazione del mondo che ha causato e continua a causare la distruzione delle culture minoritarie, è altrettanto vero che spesso l’attenzione dell’opinione pubblica nei confronti di queste culture è garantita esclusivamente dalla loro esposizione mediatica.
Complessivamente, comunque, la proposta bioregionalista va sicuramente considerata con attenzione,  perché indubbiamente essa contiene al suo interno numerosi spunti interessanti, che possono entrare a fare parte, quando già non lo sono, del patrimonio politico eco-socialista…
 
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